REGALAMI UNA MAMMA

I giocattoli erano buttati da tutte le parti, alcuni erano già privi di qualche pezzo, tutto era sparso nel cortile interno.

Siamo nella casa “hogares” dei bambini più piccoli. Le loro grida si sentono anche dalla strada. Ma quel vociare non è vera allegria, è piuttosto il bisogno di esprimere l’ansietà e l’inquietudine profonda che dimorano nei loro cuori. L’allegria è pace, l’ansietà è sfrenatezza. Eppure anche per noi adulti talvolta è difficile discriminare tra una situazione e l’altra.

Riunisco tutti i bambini nella sala di soggiorno della casa e dico loro: «Dobbiamo parlare». Per strano che possa sembrare sono tutti d’accordo. Desiderano parlare! Hanno bisogno di tirar fuori ciò che hanno nell’anima. Il dialogo all’inizio è tutto meno che dialogo. Volano accuse da un lato all’altro. Tutti parlano. Tutti vogliono parlare! Lascio che si insultino con le loro parole. La sala per un momento è una torre di Babele. Allora dico: «Parlate uno alla volta e per alzata di mano». L’invito alla disciplina ottiene i suoi frutti: ciascuno parla secondo il suo turno. Hanno difficoltà ad esprimersi per la povertà del loro vocabolario, ma tutti vogliono dire qualcosa! L’anima soffre quando non è ascoltata.  

D’un tratto regna il silenzio. Nessuno dice più nulla!

Ne approfitto per parlare. Per poter comunicare con loro mi faccio piccolo anch’io e non utilizzo parole che non padroneggiano; volutamente seleziono con attenzione ogni parola che pronuncio. Poco a poco l’ambiente diviene più sereno, più tranquillo. Dialogare non è strillare. Chi strilla non dialoga.

Parlo allora dei regali e della cura che bisogna avere dei giocattoli. Della gratitudine che dobbiamo avere per le persone che hanno dei pensieri e delle attenzioni per noi. Un bambino mi interrompe: «I giocattoli sentono, è vero?» Gli rispondo di no. Riprendo l’argomento e insisto che un modo di corrispondere all’affetto è prendersi cura dei doni ricevuti, siano essi giocattoli, cibo o vestiti. «Molti bambini non hanno regali» dice un altro. «È così», rispondo «ci sono molti bambini e bambine che non hanno regali, non hanno un posto dove vivere, o una famiglia con la quale stare». Un bambino alza la mano: «Io non ho giocattoli, né regali». E molti altri si aggiungono quando termina di parlare. Il chiasso torna nella sala, ma ora ciascuno parla della sua storia. Dialogare è ascoltare. Li ascolto uno per uno: storie dure, a volte crudeli, che parlano di una povertà che non fa solo male, fa soffrire profondamente.

Uno dei bambini era rimasto in silenzio; aveva richiamato la mia attenzione perché normalmente parla molto. È un bambino che parla tutto il tempo! Pensando per un momento che evocare il passato gli avesse fatto riaffiorare alla mente tristi ricordi intervengo per chiedere silenzio al gruppo e gli domando:

«C’è qualcosa che non va

«No. Niente

«Non hai avuto giocattoli

«Sì, li ho avuti

La sua tristezza era evidente e contagiava tutti. Allora «perché piangi?», domandò un bambino. «Perché non ho la mamma». E guardandomi disse: «Tu parli con Dio. Digli che mi regali una mamma!» E ruppe in un pianto dirotto.

La “Torre di Babele” si trasformò allora in diluvio. Le parole strazianti del mio bambino commossero tutti.

Lasciai che piangessero per un po’. Che dessero sfogo a ciò che pesava nella loro nell’anima. Così restammo in silenzio e senza dire niente dicendoci tutto. Alcuni si toccavano la spalla, altri consolavano chi avevano a fianco. Due abbracciavano il bambino che chiedeva in regalo una mamma: erano quelli che più piangevano.

La liberazione non sempre ha bisogno di parole, basta restare vicini.

Alla fine ci abbracciammo tutti. Chiesi loro di aiutarmi a riordinare la casa. Raccogliemmo tutti i giocattoli e riparammo quelli che potevano essere riparati. Raccogliemmo le carte dei dolci e lasciammo tutto pulito. Presi allora due palle di plastica dalla cantina e cominciarono a giocare nel cortile. Le voci dei bambini inondavano nuovamente la casa, ma questa volta non gridavano.

«Ciao», gli dissi.

«Ciao», mi rispose.

Senza dire una parola mi abbracciò.

Lo abbracciai anch’io.

«Parli con Dio?»

«Credo che sia Lui a parlare con me».

Il bambino mi guarda.

«Digli che non sono arrabbiato con lui per la mia mamma».

«Lui già lo sa», gli rispondo.

«Posso andare a giocare?»

«Certo che puoi!»

Mi sedetti sulle scale del cortile che portano al piano alto. Il bambino ora rideva e giocava con gli altri. Guardai il cielo e parlai con Dio: «Signore, ecco qui i tuoi figli. Sei per loro Padre e Madre, Amore, tenerezza e consolazione».

Tutti possiamo essere per gli altri il miracolo che si aspettano e nel quale sperano.

Reyes Muñoz Tónix. Sch. P.

Condividi